Vita del contadino marsicano del ‘900 tra fitti e tasse

Vita del contadino marsicano del ‘900 tra fitti e tasse

Il termine contadino, all’indomani del prosciugamento del Fucino, qualificava determinati ruoli dell’agricoltore, ossia di colui che si dedicava alle attività agricole. Generalmente, chiunque traesse il proprio reddito dal lavoro della terra era un contadino, anche uno che possedeva terreni. Qualora avesse potuto permettersi la manodopera di terzi per lavorare i suoi campi, invece, sarebbe stato considerato un proprietario terriero.

Il livello più basso di contadino corrispondeva al bracciante o al lavoratore a contratto. Queste persone non avevano alcun interesse finanziario sulla terra o sul prodotto, e venivano assunte per lavorare nei campi di proprietà altrui con un salario prestabilito per ciascun giorno di lavoro. Tra i braccianti vi erano parecchie donne che lavoravano compatibilmente con i loro impegni casalinghi, quelle lavoratrici che vengono inserire in busta paga con il termine giornate. Nel 1910 una giornata costava 30 soldi, circa 6,00 euro di oggi.

Una seconda categoria di contadini erano i mezzadri, coloro che lavoravano le terre di terzi trattenendo una quota della produzione e lasciando il resto al proprietario terriero. In questo caso il contadino era libero di vendere alcuni dei suoi prodotti e conservarne altri per il consumo della propria famiglia. Anche le terre della Chiesa, appartenenti a conventi e gestite da preti e suore, venivano coltivate dai mezzadri, i quali fornivano prodotti agricoli ai religiosi senza costi o manodopera da parte loro. Gli accordi tra mezzadri e datori di lavoro variavano in modo significativo a seconda delle aree di appartenenza. Generalmente, il proprietario terriero riceveva da un terzo alla metà dei prodotti ricavati dalla sua terra, e solitamente forniva l’alloggio al mezzadro e alla sua famiglia in prossimità dei campi oppure nel paese più vicino. In alcuni casi si accollava i costi del grano da semina e delle spese straordinarie come quelle dei lavori di aratura.

L’ultimo gruppo riguarda gli affittuari, ossia coloro che affittavano uno o più appezzamenti di terreno dal proprietario terriero, pagando una quota annuale prestabilita. Anche in questo caso l’organizzazione variava a seconda degli incarichi; alcuni, ad esempio, avevano l’obbligo di far fronte a tutte le spese, tra cui l’acquisto di grano da semina, l’assunzione di lavoratori a giornata, e il pagamento dell’affitto di aratri e mietitrici che presumibilmente facevano parte delle attrezzature dell’amministrazione Torlonia, la stessa che si era occupata del prosciugamento del lago.

Più fortunato era quel contadino che aveva la possibilità di affittare diversi piccoli appezzamenti di terreno o di possedere una o più terre di proprietà acquisite attraverso eredità, matrimonio o compravendita. Spesso, questi terreni erano distanti diversi chilometri dai centri abitati, pochi possedevano un asino o un cavallo, sicché si impiegava parecchio tempo per raggiungerli.

La maggior parte dei contadini affittava casa dal proprio datore di lavoro o da un proprietario terriero del paese. L’acqua veniva presa da un pozzo comune o dalla fonte, e conservata in grandi contenitori di terracotta (la conca). Le donne del paese facevano il bucato in una grande vasca di pietra, realizzata allo scopo di raccogliere il getto della fontana e in modo tale da assicurare una fornitura continua di acqua corrente.

Con un fazzoletto di terra vicino alla propria casa anche il più povero tra i contadini riusciva a coltivare un orto da cui ricavare cipolle, pomodori, peperoni e una varietà di fagioli. Parecchie persone avevano anche un vitigno dal quale producevano il proprio vino. Qualcuno allevava delle galline che fornivano proteine attraverso le uova, qualcun altro più fortunato possedeva una capra o due per produrre latte e formaggio. La dieta del contadino era piuttosto povera, ma certamente più ricca di quella degli indigenti che vivevano nelle città. Oltre alla possibilità di avere un proprio orto e degli animali in casa, chi viveva nelle campagne aveva a disposizione gratuitamente una varietà di spezie quali timo, rosmarino e finocchio, ma anche piante erbacee come rucola e cicoria che crescevano spontaneamente e ovunque. Gli animali venivano mangiati solo in occasioni speciali, mentre uova e formaggio coprivano il fabbisogno quotidiano di proteine. Peraltro, come già illustrato, i mezzadri e i contadini affittuari potevano trattenere una parte dei prodotti coltivati per il consumo familiare.

Dopo l’unificazione, la nuova nazione si trovò con scarse risorse e smisurate richieste finanziarie. Nell’ex Regno di Napoli le infrastrutture come strade e ponti erano carenti e le scuole pubbliche pressoché inesistenti o perlopiù destinate a benestanti, poiché la politica delle classi dominanti aveva tenuto i ceti meno abbienti nell’isolamento. I sistemi agricoli e l’industria erano assai arretrati rispetto a quelli dell’Europa settentrionale e degli Stati Uniti. Qualsiasi tentativo di estrarre fondi dai ricchi proprietari terrieri avrebbe generato una feroce resistenza che sarebbe sfociata in rivoluzione. Il governo fu quindi costretto a contrarre prestiti su larga scala con il risultato di un enorme debito nazionale. L’unica fonte di denaro fattibile divennero i tributi di ogni genere a discapito del popolo, che dovette accollarsi molteplici tasse a cifre assai elevate che includevano un’imposta sul reddito, una sulla proprietà, una sulle vendite, oltre a una serie di dazi sulle importazioni. L’imposta fondiaria, ad esempio, era del 20% del valore del terreno, e talvolta anche il doppio. Qualsiasi miglioramento del suolo ne avrebbe alzato il valore e, di conseguenza, aumentato le tasse, con il risultato che i proprietari terrieri non facevano nessuno sforzo per migliorare la resa dei loro campi. L’imposta sul reddito, che variava dal 7 al 20%, veniva valutata sul lordo anziché sul netto, in modo tale che seppur le spese di un cittadino superassero i ricavi, l’imposta sarebbe rimasta tale.

I redditi inferiori a 500 lire erano esenti da tasse. Vi erano inoltre anche alcuni tributi comunali, tra cui una sorta di dazio sui prodotti alimentari importati nel proprio comune (l’octroi di derivazione francese),una tassa di proprietà e un’imposta di famiglia, quest’ultima generalmente valutata in modo arbitrario. Un funzionario del paese stimava il valore del fabbricato e dei beni mobili e assegnava loro un tributo corrispondente. Inoltre, alcuni beni come un cavallo o un mulo venivano tassati in modo specifico, analogamente alle attuali tasse automobilistiche. L’imposta sulle vendite dei prodotti di base come alimenti e bevande veniva aggravata dalle tasse nazionali e comunali. Nel complesso, il 30% del reddito di una persona finiva in tasse.

Ma le tasse e i tributi non rappresentavano gli unici oneri finanziari di un agricoltore. I prestiti contratti per acquistare le sementi, maturavano sistematicamente interessi altissimi, soprattutto quando ci si rivolgeva a strozzini.

A quei tempi, le grandi banche nazionali non avevano filiali nei piccoli paesi; in compenso c’erano diversi enti che fornivano servizi come conti deposito e piccoli prestiti. L’ufficio postale, in Italia come in Europa, metteva a disposizione il libretto di risparmio, principale scelta delle persone per depositare i propri fondi. Esistevano anche le banche popolari, una sorta di credito cooperativo in cui le persone potevano acquistare azioni. Concedevano piccoli prestiti agli agricoltori e agli imprenditori per acquistare forniture e attrezzature a bassi tassi d’interesse, mentre i proprietari delle azioni ricevevano i dividendi derivanti dal pagamento degli interessi.

di Federico Di Mattia