La sindrome di Treacher Collins e quel mondo che giudica troppo dall’apparenza

La sindrome di Treacher Collins e quel mondo che giudica troppo dall’apparenza

di Alina Di Mattia

Se esiste qualcosa in grado di salvare questo nostro mondo di sicuro è la gentilezza. E se è vero che “un battito d’ali di farfalla sia in grado di provocare un uragano dall’altra parte del pianeta”, forse è arrivato il momento di dispensare azioni gentili soprattutto nei confronti di chi soffre.

Sono brutta. Dicono che non sono degna di esistere, che inquino l’aria, che appesto l’ambiente. Sono un rifiuto della società, la sorella da nascondere agli amici, la figlia da proteggere dallo sguardo dei curiosi, la moglie che nessuno vorrà mai. Avrei preferito essere invisibile, quanto meno nessuno si sarebbe accorto della mia mostruosità ed io sarei stata libera di camminare per strada a testa alta, di farmi spettinare i capelli dal vento, di lasciarmi baciare dai raggi del sole con spudoratezza, come nessuno ha mai fatto, come nessuno farà mai. Se fossi stata invisibile mi sarei fermata a respirare l’odore dei fiori immersa tra le meraviglie della natura, senza sembrare, io, un errore della stessa natura, senza quella sensazione angosciante di essere osservata con disprezzo, senza sentirmi ripetere alle spalle quanto sia orribile.

Eppure non ho mai chiesto di essere bella per qualcuno… 

Mia madre dice che la gente è cattiva con le persone speciali, ma forse la gente è cattiva con quelli come me perché deturpano la bellezza della vita; dice anche di passare oltre, ma sono troppo stanca per passare sopra a tutto, perché quel tutto è passato sopra di me frantumandomi. Ci sono momenti in cui il mio cuore sembra esplodere in mille pezzi per il troppo dolore. Mi manca il respiro, mi manca l’aria, mi manco io. Quanto vorrei che le persone fossero più gentili, soltanto un po’ più gentili… 

Già, la gentilezza, il primo passo per costruire una società migliore. Ma l’’evoluzione’ dei rapporti relazionali dell’epoca moderna, in particolare quelli nell’etere in cui tutto sembra essere lecito, ci hanno fatto dimenticare quella che i nostri nonni chiamavano ‘buona creanza’.

Quando ti viene data la possibilità di scegliere se avere ragione o essere gentile, scegli di essere gentile”, recita uno dei precetti di Mr. Browne, giovane insegnante della Beecher Prep School frequentata dal piccolo August Pullman nel film “Wonder”.

Mentre il regista Stephen Chbosky inquadra i tristi occhi di ‘Auggie’, un bambino di dieci anni che attende il giorno di Halloween per nascondere il viso dietro una maschera, lo spettatore più sensibile vive una sorta di collasso emozionale.

Siate gentili”, invece, è la frase conclusiva che il giovane Raffaele Capperi sceglie per salutare il pubblico del programma televisivo “Tu si que vales”, in cui racconta, senza mezzi termini, il disagio e la sofferenza celati dietro un’esistenza trascorsa a difendersi dalla miseria umana. Una lezione di vita che arriva come una sferzata in pieno viso.

Raffaele Capperi
Raffaele Capperi

August e Raffaele hanno in comune quella che viene chiamata “disostosi mandibolo facciale”, conosciuta appunto come sindrome di Treacher Collins (TCS) o anche sindrome di Franceschetti-Zwahlen-Klein, una condizione genetica caratterizzata da deformazione del cranio facciale che colpisce 1 bambino su 50.000 [Gorlin R.J. et al.], e che comporta, sin dalla nascita, il ricorso a innumerevoli interventi di chirurgia maxillofacciale finalizzati alla correzione di anomalie che possono compromettere gravemente la salute. Un doloroso iter sanitario cui si affianca un percorso di psicoterapia per superare problematiche di natura psicologica dovute a situazioni di emarginazione sociale e continue vessazioni quotidiane, pericolose per lo sviluppo della personalità del bambino.

Una società che ragiona attraverso stereotipi

All’epoca delle riprese di Wonder”, Jacob Tremblay, il giovanissimo protagonista, aveva soltanto nove anni. Tre ne aveva il figlio della scrittrice americana Raquel Jaramillo Palacio, autrice del libro da cui è tratta la pellicola. L’incontro mal gestito con una bambina portatrice di TCS all’interno di un bar, il pianto del figlio seguito da un’imbarazzante fuga per allontanarlo dalla piccola che involontariamente lo stava spaventando, spingono Raquel a spalancare una finestra sulla sindrome. La sua opera diventa un bestseller, la trasposizione cinematografica incassa oltre 305 milioni di dollari, portando nelle nostre case e nella nostra ipocrita normalità la consapevolezza di vivere in un mondo che non sa gestire le differenze.

Il film racconta la storia di un bimbo nato con “disostosi mandibolo-facciale”, che deve combattere non soltanto contro le gravi conseguenze della patologia di cui è affetto e che lo costringe a sottoporsi a dozzine di interventi chirurgici che gli permettano di respirare, vedere e sentire, ma anche contro una società che ragiona attraverso stereotipi e percepisce la sua diversità con orrore.

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La pellicola vince l’Humanitarian Satellite Award e il Saturn Award e ottiene la candidatura agli Oscar, evidenziando come un percorso doloroso può trasformarsi in una magnifica occasione. La sindrome di Treacher Collins, infatti, se tempestivamente diagnosticata e supportata da una corretta informazione, può essere associata a una buona aspettativa e qualità di vita, e storie vincenti come quelle di Auggie e Raffaele possono contribuire a rendere la società più inclusiva. Un ulteriore messaggio di sensibilizzazione che, negli ultimi decenni, ha contribuito a trasformare la percezione del concetto di diversità modificando i parametri di ciò che nell’accezione comune viene definita “bellezza”. Una perfezione che di fatto non esiste, ma che i media impongono seminando chimere ovunque. Oggi, si tende a promuovere un’armonia estetica che valorizza la centralità dell’individuo e una pluralità di espressioni che celebrano la persona nella sua unicità.

In un mondo che giudica dall’apparenza l’occhio va abituato alle diversità e le persone al rispetto, perché, se esiste qualcosa in grado di salvare l’umanità di sicuro è la gentilezza e, per usare le parole di Auggie, “tutti meritiamo una standing ovation almeno una volta nella vita”.

L’articolo è stato pubblicato dallo stesso autore su “La Voce di New York”