Esiste una figura sempre più diffusa nelle società segnate dalla mobilità: una persona che non appartiene più pienamente al luogo da cui è partita, ma che non si riconosce neppure nel luogo in cui ha vissuto altrove. Non è un emigrato definitivo, né un residente stabile. È qualcuno che ha attraversato più mondi senza poterne abitare uno fino in fondo. Una figura di soglia.
È partito spesso giovane, spinto dal lavoro, dalla necessità, dall’assenza di alternative. Ha vissuto in contesti urbani, industriali, globalizzati. Ha imparato mestieri, linguaggi, ritmi diversi. E poi, a un certo punto, torna. O meglio: ricompare. Ma il ritorno non coincide mai con un vero rientro. Non c’è ricomposizione, non c’è continuità. C’è più che altro una presenza intermittente, fragile, non del tutto riconosciuta.
Questa persona non è più un “abitante” nel senso tradizionale. Non dipende più dalla terra, non vive di cicli naturali, non costruisce il tempo sulla ripetizione. Ma non è neppure un cittadino pienamente integrato: la città è stata spesso uno spazio funzionale, non identitario; un luogo di lavoro più che di appartenenza. Ne risulta una condizione ibrida, difficile da nominare.
Chi vive questa posizione di mezzo porta con sé una biografia spezzata. La propria identità si è formata nella discontinuità: partenze, adattamenti, compromessi. Il ritorno non è mai nostalgico in senso semplice. È attraversato da consapevolezza: il luogo di origine non è più quello lasciato, e chi torna non è più chi è partito. Per questo il rientro è spesso parziale, stagionale, prudente.
Il legame con il luogo d’origine si esprime allora in gesti minimi: riaprire una casa, sistemare un oggetto, curare uno spazio che non è più necessario, ma resta simbolico. Si partecipa a momenti collettivi senza occuparli del tutto. Si osserva più di quanto si agisca. Si diventa testimoni.
Queste persone non guidano comunità, non progettano trasformazioni strutturali. Ma tengono insieme memorie, continuità affettive, racconti. Sono archivi viventi di un tempo che non esiste più, e che tuttavia non è scomparso. La loro presenza è discreta, spesso invisibile, ma decisiva per la sopravvivenza simbolica dei luoghi e delle relazioni.
La loro vita è segnata da una tensione costante tra due poli: da un lato il desiderio di radicamento, dall’altro l’impossibilità concreta di fermarsi davvero. Restano senza stabilizzarsi. Tornano senza ricominciare. Vivono in una forma di restanza incompleta, che non è scelta ideologica, ma esito biografico.
Dal punto di vista sociale, queste figure mettono in crisi categorie consolidate: partire o restare, centro o margine, integrazione o esclusione. Qui non c’è una dicotomia, ma una zona grigia. Un’intercapedine esistenziale in cui si abita senza possedere, si appartiene senza coincidere.
Non si tratta di una condizione marginale nel senso numerico. Al contrario, è sempre più diffusa. È il volto umano di una modernità che ha moltiplicato le possibilità di movimento senza garantire appartenenze stabili. Una modernità che produce individui competenti, adattabili, ma raramente “a casa”.
Queste persone non chiedono necessariamente politiche di ritorno o narrazioni eroiche della restanza. Chiedono piuttosto di essere riconosciute per ciò che sono: soggetti liminali, portatori di una conoscenza specifica della perdita, del compromesso, della continuità imperfetta. Sanno cosa significa abitare senza possedere, restare senza fermarsi.
Forse il futuro non passa solo da chi resta o da chi parte, ma da chi vive questa soglia. Da chi tiene aperta una relazione, anche fragile, anche intermittente. Non più contadino, non pienamente cittadino. Non più dentro, non del tutto fuori. Una persona di confine, che continua a tornare non perché creda davvero in un ritorno definitivo, ma perché non riesce – e forse non vuole – andare via del tutto.