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A spasso con Silone

“A spasso con Silone” è la narrazione di una passeggiata di Ignazio Silone realmente avvenuta nel lontano ottobre del 1973. Il racconto ricostruisce il tragitto dello scrittore dalla città di Pescina fino al borgo di Aielli, attraverso i luoghi delle opere siloniane e i ricordi e l’immaginazione della stessa autrice. Vincitore del “Concorso Letterario Racconti dall’Abruzzo e dal Molise 2019″,  è stato inserito nell’antologia edita da Historica Edizioni.

Chissà quali pensieri affollavano la mente di Ignazio Silone quando, dal piazzale del Casale di di Aielli, si affacciava sul superbo e immenso panorama della Valle del Fucino…

“Non l’avevo mai visto a quel modo, tutt’insieme, davanti a me e ‘fuori di me’, con la sua valle”

avrà pensato, ricordando la prima volta che vide il suo paese laggiù, dai campi, e le cui inattese impressioni narra in Uscita di sicurezza, trasmettendo al lettore quel senso di appartenenza a un popolo forte, resiliente, abituato alla sopravvivenza e forgiato da profondi valori arcaici conservati nel tempo.

Chissà, dunque, quante volte avrà diretto lo sguardo su quel lago che non c’era. Quante volte, nel farlo, il pensiero sarà andato stizzito “al sedicente principe Torlonia”, quel “padrone di tutte le terre” o, come titolato dal re, “il principe del Fucino”, uno speculatore senza scrupoli ricordato in Abruzzo per l’epica e contestata impresa del prosciugamento delle acque del terzo lago più grande d’Italia, al fine di impossessarsi di 16.500 ettari di terreno, contro il quale lottavano i contadini per ottenere le terre da lavorare, rivendicando l’antico diritto di pesca su quello che fu il lago di Fucino.
Così come gli antichi marsi riparavano ad Agella in tempi arcaici e gli agellani ad Agellum nel Medioevo, lo scrittore amava rifugiarsi sullo sperone sul quale si adagia il caratteristico paese di Aielli e deliziarsi della vista di quei luoghi che, quarant’anni dopo, faranno da scenografia alla trasposizione cinematografica dal suo primo romanzo.

Quel giovedì di ottobre del ’73, lo scrittore infilò la giacca in tweed Donegal, indossò l’immancabile cappello e si diresse alla volta del casale dove avrebbe pranzato con l’amico Enio.

Conosceva bene quei luoghi Silone, ne conosceva ogni campo, ogni strada, ogni chiesa, ogni volto bruciato dal sole, e ne dà ampia dimostrazione in Vino e Pane, quando parla della “strada ferrata e la via Valeria che, tra campi di fieno, di grano, di patate, di bietole, di fagioli, di granturco, portava ad Avezzano”, o in Una manciata di more in cui racconta del “sentiero della selva” tanto familiare ai pescinesi. E di sicuro conosceva mio nonno, Vincenz’ u’ mulinar’, e quell’unica vigna a confine con la statale marsicana che percorre, in alcuni tratti, proprio le antiche sponde del lago prosciugato.
Mi piace immaginare – ma forse immaginazione non è – che Ignazio Silone abbia voluto concedersi una pausa per assaggiare un chicco d’uva, magari portarsi via qualche grappolo prima della vendemmia, mai lasciando intendere al suo interlocutore di avere davanti agli occhi uno dei più famosi scrittori al mondo le cui opere, ormai immortali, erano state tradotte in diversi angoli del pianeta.
Salutò quel gentiluomo dal curioso accento ovidiano e, seguendo con lo sguardo buona parte del profilo della Bella Addormentata, lasciandosi il cimitero comunale alle spalle, il buon Secondino Tranquilli si diresse verso l’incrocio con la Tiburtina Valeria, quella storica via già menzionata che univa il mar Tirreno al mar Adriatico passando per l’angusto valico di Forca Caruso e che, prima della realizzazione dell’autostrada, era l’unico percorso possibile dei mercanti e dei viandanti.

L’autunno era ormai alle porte e la tavolozza cromatica del foliage cominciava a dipingere la campagna abruzzese che, da lì a breve, sarebbe stata ricoperta da una coltre di neve bianca e candida.
Quel pensiero lo condusse con la mente ai gelidi inverni trascorsi a Zurigo, allorquando il suo sguardo incrociò quello di Min’cucc’ u’ facocchje intento a curvare con perizia i cerchi di ferro di alcune ruote. Una scena di sapiente lavoro che non può essere sfuggita all’occhio dell’illustre osservatore, data la traiettoria del percorso, dopodiché avanzò ancora per 200 metri  lungo il Tratturo, fino a svoltare a destra in direzione di Cerchio.

Era giorno di mercato in paese e la piazza era gremita di venditori e compratori, di sfaccendati e passanti.  A quell’ora, i rumori dello smontaggio dei banchi degli ambulanti insieme a quello delle saracinesche delle botteghe in chiusura, si accavallavano agli schiamazzi dei bambini usciti da scuola, che salterellavano intorno al povero Colonnello rientrato a Cerchio dopo le numerose torture subite in guerra.
Mo t’ spar’! urlò l’ex ufficiale, puntando il pollice e l’indice sotto la tasca a mo’ di pistola verso lo sparuto gruppo di canzonatori.
Silone si protrasse un istante per osservare l’insolita scena, mai prevedendo che, qualche anno più tardi, quegli stessi ragazzini avrebbero prestato i loro volti ai cafoni della sua opera più famosa, Fontamara, nel film diretto dal regista Carlo Lizzani.

Una scena di Fontamara, il film di Carlo Lizzani

Dalla parte opposta, intanto, alcuni vecchi facevano l’ultimo giro di briscola prima del pranzo, mentre ‘Min’cucc’ ciaccion’ raccoglieva gli ultimi bicchieri sui tavolini di duro legno.

In quel breve percorso e in meno di mezz’ora, lo scrittore aveva assistito ad uno spaccato di vita quotidiana di coloro che furono i discendenti di cacciatori e pescatori e che si ritrovarono loro malgrado contadini, di bellicosi condottieri marsi, di briganti, di superstiti di quel terribile terremoto del 1915 che riprogrammò tutte le vite di chi sopravvisse, degli oppressi che si riscattarono con i vari Berardi Viola della storia.

Tirò dritto Silone, senza neppure rallentare davanti alla bottega di Maria sacchetta il cui profumo di alici sottosale inebriava tutto il quartiere adiacente fino a C’sareo.
All’improvviso, un sussulto dinnanzi a ciò che restava delle rovine del terremoto del 1915. Una fitta al cuore e il ricordo doloroso della mamma Marianna lo sovrastò; il tempo esatto di oltrepassare il palazzo diroccato di Don Venanzio e terminare l’impervia curva dalla quale faceva capolino il paese di Collarmele, per poi proseguire il suo viaggio tra la natura incontaminata di quei luoghi ai quali fu sempre radicato, come lo fu anche il Leopardi al suo ermo colle: quell’Abruzzo al centro del suo pensiero e del suo pensare che si ritrova anche ne L’avventura di un povero cristiano e che gli valse il famoso Premio Campiello nel 1968.

Un momento prima di varcare la soglia del ristorante, Silone si voltò ad ammirare lo straordinario mosaico di terreni coltivati e perfettamente allineati tra loro, che si perdevano all’orizzonte e sui quali spiccavano in lontananza le prime antenne del Telespazio del Fucino.

“Un villaggio come tanti per chi ci guarda da lontano; ma per chi vi nasce e cresce, il cosmo”, pensò.

Quel giorno, Silone ordinò fettuccine al ragù, agnello alla brace e contorno di fagioli in umido. Il tutto accompagnato da vino rosso corposo e granato della casa.

L’autografo di Ignazio Silone a Marcello Nucci

Col suo fare garbato Marcello Nucci, titolare del ristorante, chiese un autografo allo scrittore, ben consapevole che quel signore schivo e riservato che parlava quattro lingue, oltre al dialetto pescinese, un giorno sarebbe stato annoverato tra i più grandi autori del ‘900.

Cosa si dissero i due commensali non ci è dato sapere. Quel pomeriggio del 4 ottobre del 1973, lo scrittore uscì dal casale, salì in macchina con l’amico Enio e attraversò ancora una volta le strade di Cerchio per tornare a casa. Giunto di nuovo al bivio, nei pressi della strada sterrata e polverosa che conduceva direttamente sulla Circonfucense e a pochi passi dal mulino, gli occhi dell’autore di Fontamara osservarono tre bambini dai capelli color del grano che, sorvegliati da una giovane mamma, contavano curiosamente le rare automobili di passaggio sulla provinciale. Ci guardò e di sicuro ci sorrise.

di Alina Di Mattia

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