Un portento eccezionale la cui origine viene erroneamente attribuita ai francesi, famoso dalle Alpi al mar Ionio, nato per curare le ferite dai colpi di un’antica arma da fuoco, l’archibugio, da cui prese il nome.
L’acqua archibugiata di Avezzano era un antico distillato a base di decine di erbe medicinali raccolte sul Monte Velino e, in particolar modo, sulla vetta della Majella. Un territorio rinomato nei secoli passati per la varietà delle prodigiose piante officinali presenti sulle montagne, erbe preziose e ricercatissime dagli speziali dell’antichità.
Per la preparazione dell’acqua venivano usate le foglie di Tanaceto, pianta aromatica dalle foglie lunghe e verdi e dalle proprietà antibatteriche e antinfiammatorie, con le quali venivano preparati decotti curativi per uso topico, ma anche tisane digestive e rinfrescanti e lozioni disinfestanti per allontanare insetti e piccoli roditori.
Con il Tanaceto nacque in seguito un ottimo amaro peptico che oggi i francesi chiamano Liqueur d’Arquebuse. Chi ha qualche anno in più, ricorderà un liquore dal colore verde clorofilla con una piantina all’interno della bottiglia stessa. Era proprio il Tanaceto, questa pianta aromatica dalle foglie lunghe e sottili i cui fiori, simili alle margherite, fioriscono in estate. L’origine del famoso liquore viene fatta risalire, molto erroneamente secondo me, ai frati francesi di fine Ottocento.

Se l’acqua archibugiata di Avezzano guarisse davvero dai morsi dei serpenti velenosi, non lo sapremo mai. Con tutta probabilità però con l‘Unità d’Italia e il sud conquistato e messo sottosopra dalle truppe sabaude, la ricetta miracolosa fu “esportata” (come tutto il resto) nei territori del nord, fino a diventare oggi un prodotto della tradizione piemontese, in particolare di Carmagnola in provincia di Torino. E questo un po’ ci rammarica.
di F.A.D
Foto di copertina di Arek Socha